Camminavo svogliatamente per il dedalo di strade della mia città, inseguendo la via più lunga che mi permettesse di restare in quello stato neutro e non arrivare a scuola. Guardavo “gli zainati” correre veloci, impauriti dal ticchettio dell’orologio che inevitabilmente segnalava l’arrivo del suono della campanella ed io cercavo di non mischiarmi con loro rallentando il passo. Giunsi dalla recinzione e come ogni mattina feci abbaiare i cani scavalcandola, mi tagliai la felpa, uno strappo abbastanza vistoso, ma facilmente cucibile. Ora ero nella zona rossa, nel poligono della scuola pronto ad essere guardato da ogni proffa, da ogni proffo, che cerca di capire il mio numero di matricola nel registro. Entro, apro la porta silenziosamente, come a dire che io con quel luogo non c’entro nulla, incrocio gli occhi di un segretario che fa finta di essere distratto dalle carte, dalla burocrazia scolastica che disbosca un pezzo di Amazzonia ogni giorno, adesso non posso più far finta di non essere della scuola, ci sono dentro. Ormai sono chiaramente un ingranaggio di quel sistema, busso alla porta e con finta allegria saluto l’ora d’inglese e la “R” sul registro con un good-morning, ma in realtà saluto l’orrenda mattina con un leggero mordicchìo delle labbra che mi fa sentir vivo, che mi fa sentir ancora del sangue in corpo e non solo la razionalità nei muscoli che mi trattiene dallo scappare da quel luogo andando chissà dove.
Non successe niente durante i cinque moduli (così il vocabolario scolastico chiama le ore dopo la riforma della Moratti), normale amministrazione, il ritiro di un cellulare, un rimprovero, per un bacio che due ragazzi si sono dati durante la ricreazione, da parte di un proffo, la caduta di una proffa con i tacchi alti giù dalle scale, la solita distribuzione di volantini lenin-marxisti fuori dalla scuola, la solita palla.
Tutto questo per duecento mattine, duecento “R” sul registro come prova che la scuola non ha altri mezzi che mostrare i muscoli, il luogo dove si dovrebbe insegnare la giustizia, la tolleranza e dove invece, a volte, si fa un uso arbitrario della forza: si è deboli con i forti e forti con i deboli. Dove sanno di poter colpire, dove sanno di poter infierire si colpisce e s'infierisce. La scuola è fatta per chi non ne ha bisogno, è fatta per chi intanto nella vita troverà sempre un posto perché è disposto a calarsi, in qualunque caso, le braghe. Le altre persone la scuola le incattivisce, insegna loro le logiche che governano il nostro paese, pochi decidono, tanti obbediscono. E ovunque ti giri vedi che chi usa il potere (qualunque potere) deve corrompere, corrompere, corrompere, farsi corrompere, farsi corrompere, farsi corrompere, entrare nel “clan”, avviluppare e farsi avviluppare dalla piovra.
Dopo queste duecento mattine, dopo queste duecento occasioni mancate, ricordi i proffi che hanno raccontato storie, ingiallite dagli anni, sul ’68 a cui hanno partecipato, anche se ora ne calpestano, forse inconsapevolmente, ogni principio, usando gli stessi mezzi che denunciavano, anche peggiori, visto che siamo in un periodo di restaurazione dove si sta ricreando un potere ancora più vorace. Dopo duecento giornate ero riuscito a scrivere un libro, un’ipotesi di legge elettorale, degli articoli per il giornalino scolastico, post per il mio blog. Mica poco! Avevo disboscato un pezzo di amazzonia, ma non avevo scelta: purtroppo non mi lasciavano far uso del laptop durante le ore di lezione. Dopo duecento giornate avevo visto il calore del riscaldamento scolastico passarmi davanti agli occhi e salutarmi mentre usciva dalle finestre e i sottili muri. Dopo duecento giornate potevo respirare un’aria mia, non la stessa dei proffi. Si andava al mare, si prendeva il treno verso le poche spiagge pulite vicino alla città di Genova, si affittava un pedalò salendoci in cento. Poi la campagna, giri in bici per il basso Piemonte alla ricerca della casa di De Andrè. Si portavano le ruote sempre in posti diversi, sentendo l’odore delle colline coltivate a vite. Dopo essermi sentito in gabbia per nove mesi ora, ero libero! “Scuola” era una parola che non faceva più parte del mio vocabolario, sognavo un mondo migliore, al di fuori delle aule e degli edifici scolastici che tanto mi avevano tolto e che, per l’estate, mi avevano riservato un debito. Un leggero post-it appiccicato sulla schiena che leggermente ti scioglie la pelle, sino a che non riesci più a non far finta di nulla e sei costretto a riconsiderarti dentro il sistema.
Ora ci chiederemo come sia possibile che ci sia, in questo ragazzo, così poco entusiasmo nei confronti della vita. Nel suo racconto solo tristi accenni di vita personale, non ci si sofferma sui momenti allegri se non per rimpiangerli e mai per descriverli. Non racconta minimamente delle sue vacanze sulle spiagge liguri con la sua ragazza, vede gli altri come un inutile disturbo, vede il mondo come qualcosa da mettere da parte, da non considerare. Eppure non è un depresso cronico, travolge ogni persona con la sua ironia, con la sua vitalità, anche se molte volte usa questa ironia per difendersi dalla sua rabbia e la esprime col riso.
Adesso mentre noi analizziamo questa situazione, mentre attiviamo i nostri sensi e le nostre competenze da psicologi, mentre cerchiamo di tirar fuori tutta la comprensione possibile dovremmo pure tirar fuori le lacrime, se non siamo privi di pietà, perché ogni giorno nelle ore in cui non c’è qualcosa a distrarre il nostro ragazzo, si compierà, da settembre, un omicidio, non clinico, ma morale da parte della scuola, nei confronti del nostro ragazzo, e di una generazione intera, uccisa dalla scuola, uccisa dallo stato.
Non successe niente durante i cinque moduli (così il vocabolario scolastico chiama le ore dopo la riforma della Moratti), normale amministrazione, il ritiro di un cellulare, un rimprovero, per un bacio che due ragazzi si sono dati durante la ricreazione, da parte di un proffo, la caduta di una proffa con i tacchi alti giù dalle scale, la solita distribuzione di volantini lenin-marxisti fuori dalla scuola, la solita palla.
Tutto questo per duecento mattine, duecento “R” sul registro come prova che la scuola non ha altri mezzi che mostrare i muscoli, il luogo dove si dovrebbe insegnare la giustizia, la tolleranza e dove invece, a volte, si fa un uso arbitrario della forza: si è deboli con i forti e forti con i deboli. Dove sanno di poter colpire, dove sanno di poter infierire si colpisce e s'infierisce. La scuola è fatta per chi non ne ha bisogno, è fatta per chi intanto nella vita troverà sempre un posto perché è disposto a calarsi, in qualunque caso, le braghe. Le altre persone la scuola le incattivisce, insegna loro le logiche che governano il nostro paese, pochi decidono, tanti obbediscono. E ovunque ti giri vedi che chi usa il potere (qualunque potere) deve corrompere, corrompere, corrompere, farsi corrompere, farsi corrompere, farsi corrompere, entrare nel “clan”, avviluppare e farsi avviluppare dalla piovra.
Dopo queste duecento mattine, dopo queste duecento occasioni mancate, ricordi i proffi che hanno raccontato storie, ingiallite dagli anni, sul ’68 a cui hanno partecipato, anche se ora ne calpestano, forse inconsapevolmente, ogni principio, usando gli stessi mezzi che denunciavano, anche peggiori, visto che siamo in un periodo di restaurazione dove si sta ricreando un potere ancora più vorace. Dopo duecento giornate ero riuscito a scrivere un libro, un’ipotesi di legge elettorale, degli articoli per il giornalino scolastico, post per il mio blog. Mica poco! Avevo disboscato un pezzo di amazzonia, ma non avevo scelta: purtroppo non mi lasciavano far uso del laptop durante le ore di lezione. Dopo duecento giornate avevo visto il calore del riscaldamento scolastico passarmi davanti agli occhi e salutarmi mentre usciva dalle finestre e i sottili muri. Dopo duecento giornate potevo respirare un’aria mia, non la stessa dei proffi. Si andava al mare, si prendeva il treno verso le poche spiagge pulite vicino alla città di Genova, si affittava un pedalò salendoci in cento. Poi la campagna, giri in bici per il basso Piemonte alla ricerca della casa di De Andrè. Si portavano le ruote sempre in posti diversi, sentendo l’odore delle colline coltivate a vite. Dopo essermi sentito in gabbia per nove mesi ora, ero libero! “Scuola” era una parola che non faceva più parte del mio vocabolario, sognavo un mondo migliore, al di fuori delle aule e degli edifici scolastici che tanto mi avevano tolto e che, per l’estate, mi avevano riservato un debito. Un leggero post-it appiccicato sulla schiena che leggermente ti scioglie la pelle, sino a che non riesci più a non far finta di nulla e sei costretto a riconsiderarti dentro il sistema.
Ora ci chiederemo come sia possibile che ci sia, in questo ragazzo, così poco entusiasmo nei confronti della vita. Nel suo racconto solo tristi accenni di vita personale, non ci si sofferma sui momenti allegri se non per rimpiangerli e mai per descriverli. Non racconta minimamente delle sue vacanze sulle spiagge liguri con la sua ragazza, vede gli altri come un inutile disturbo, vede il mondo come qualcosa da mettere da parte, da non considerare. Eppure non è un depresso cronico, travolge ogni persona con la sua ironia, con la sua vitalità, anche se molte volte usa questa ironia per difendersi dalla sua rabbia e la esprime col riso.
Adesso mentre noi analizziamo questa situazione, mentre attiviamo i nostri sensi e le nostre competenze da psicologi, mentre cerchiamo di tirar fuori tutta la comprensione possibile dovremmo pure tirar fuori le lacrime, se non siamo privi di pietà, perché ogni giorno nelle ore in cui non c’è qualcosa a distrarre il nostro ragazzo, si compierà, da settembre, un omicidio, non clinico, ma morale da parte della scuola, nei confronti del nostro ragazzo, e di una generazione intera, uccisa dalla scuola, uccisa dallo stato.
Alberto Spatola
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