Dalla prefazione di "Fontamara" di Ignazio Silone:
"Fontamara somiglia dunque, per molti lati, a ogni villaggio meridionale il quale sia un po' fuori mano, tra il piano e la montagna, fuori delle vie del traffico, quindi un po' più arretrato e misero e abbondonato degli altri. Ma Fontamara ha pure aspetti particolari. Allo stesso modo, i contadini poveri, gli uomini che fanno fruttificare la terra e soffrono la fame, i fellahin i coolies i peones i mugic i cafoni, si somigliano in tutti i paesi del mondo; sono, sulla faccia della terra, nazione a sé; eppure non si sono ancora visti due poveri in tutto identici.
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la solita miseria: la miseria ricevuta dai padri, che l'avevano ereditata dai nonni, e contro la quale il lavoro onesto non è mai servito proprio a niente.
Le ingiustizie più crudeli vi erano così antiche da aver acquistato la stessa naturalezza della pioggia, del vento, della neve.
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Ogni anno come l'anno precedente, ogni stagione come la stagione precedente.
Ogni generazione come la generazione precedente. Nessuno a Fontamara ha mai pensato che quell'antico modo di vivere potesse cambiare. La scala sociale non conosce a Fontamara che due piuoli: la condizione dei cafoni, raso terra, e, un pochino più su, quella dei piccoli proprietari.
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(Io so bene che il nome di cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, sia della campagna che della città, è ora termine di offesa e dileggio: ma io l'adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore.)
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Perché bisogna sapere che a Fontamara non vi sono due famiglie che non siano parenti; nei villaggi di montagna, in genere, tutti finiscono con l'essere parenti; tutte le famiglie, anche le più povere, hanno interessi da spartire tra di loro, e in mancanza di beni hanno da spartirsi la miseria; a Fontamara perciò non c'è famiglia che non abbia qualche lite pendente.
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L'oscura vicenda dei Fontamaresi è una monotona via crucis di cafoni affamati di terra che per generazioni e generazioni sudano sangue dall'alba al tramonto per ingrandire un minuscolo sterile podere, e non ci riescono;
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Ma in montagna la vita continuò come prima.
Una volta almeno riusciva ai montanari di fuggire in America. Perfino alcuni Fontamaresi, prima della guerra, tentarono la sorte in Argentina e in Brasile. Ma quelli di essi che poterono mettere assieme, tra il corpetto e la camicia, dalla parte del cuore, alcuni biglietti di banca, e tornarono a Fontamara, in pochi anni perdettero sui terreni aridi e sterili della contrada nativa i pochi risparmi e ricaddero presto nell'antico letargo, conservando come un ricordo di paradiso perduto l'immagine della vita intravista oltremare.
Però l'anno scorso si produssero una serie di fatti imprevisti e incomprensibili che sconvolsero la vita di Fontamara, stagnante da tempi immemorabili. Nessuno si occupò subito di quei fatti e soltanto dopo alcuni mesi cominciò a trapelarne qualche sentore, nelle altre regioni d'Italia e perfino all'estero, dove anch'io, per mia tristezza, sono stato costretto a rifugiarmi. Fontamara, un luogo che nessuna carta geografica menziona, diviene così tema di bizzarre congetture e discussioni. Una assenza di vari anni non impediva a me, che sono di quella contrada e vi sono cresciuto, di diffidare, di pensare che gli episodi attribuiti a Fontamara fossero fantastici, mai accaduti, inventati di sana pianta, come tanti altri, per motivi discutibili, e attribuiti a quel luogo remoto perché più difficile ne fosse il controllo. Alcuni tentativi, da me allora esperimentati, per avere notizie dirette, fallirono. E tuttavia io non cessai alcun giorno dal pensarvi a dal tornare con l'immaginazione in quella contrada a me ben nota, struggendomi dal desiderio di conoscere la sua sorte attuale. Finchè m'è accaduto un fatto imprevisto. Una sera che la nostalgia si era fatta in me più pungente, con mia grande sorpresa ho trovato sull'uscio della mia abitazione, seduti contro la porta e quasi addormentati, tre cafoni, due uomini e una donna, che senza esitazione ho subito riconosciuto per Fontamaresi. Al mio arrivo essi si sono alzati e m'han seguito in casa. Alla luce della lampada ho riconosciuto le facce. L'uomo era un vecchio alto, magro con la faccia terrea e unta di peli grigi; accanto a lui, sua moglie e suo figlio. Sono dunque entrati. Si sono seduti. Han cominciato a raccontare. (Allora ho riconosciuto anche la voce.) Prima ha parlato il vecchio. Poi la moglie. Poi di nuovo il vecchio. Poi di nuovo la moglie. Mentre parlava la moglie, temo di essermi addormentato, senza però, fenomeno veramente singolare, ch'io perdessi il filo del suo discorso, quasi che quella voce sorgesse dal più profondo di me. Quando è spuntato l'alba e mi sono svegliato, ha ripreso a parlare il vecchio.
Quello che han detto, è in questo libro.
Ora, due avvertenze. Questo racconto apparirà al lettore straniero, che lo leggerà per primo, in stridente contrasto con la immagine pittoresca che dell'Italia meridionale egli trova frequentemente nella letteratura per turisti. In certi libri, com'è noto, l'Italia meridionale è una terra bellissima, in cui i contadini vanno al lavoro cantando cori di gioia, cui rispondono cori di villanelle abbigliate nei tradizionali costumi, mentre nel bosco vicino gorgheggiano gli usignoli.
Purtroppo, a Fontamara queste meraviglie non sono mai successe.
I Fontamaresi vestono come i poveracci di tutte le contrade del mondo. E a Fontamara, non c'è bosco: la montagna è arida, brulla, come la maggior parte dell'Appenino. Gli uccelli sono pochi e paurosi, per la caccia spietata che a essi si fa. Non c'è usignolo; nel dialetto non c'è neppure la parola per designarlo. I contadini non cantano, né in coro, né a soli; neppure quando sono ubriachi, tanto meno (e si capisce) andando al lavoro. Invece di cantare, volentieri bestemmiano. Per esprimere una grande emozione, la gioia, l'ira, e perfino la devozione religiosa, bestemmiano. Ma neppure nel bestemmiare portano molta fantasia e se la prendono sempre contro due o tre santi di loro conoscenza, li mannaggiano sempre con le stesse rozze parolacce.
La sola persona che a Fontamara, durante la mia adolescenza, cantasse con una certa insistenza era uno scarparo. E cantava una sola canzone, che rimontava all'inizio della nostra prima guerra d'Africa e cominciava così: Non ti fidar della gente nera/ o Baldissera.
A sentir ripetere quell'ammonimento tutti i giorni dell'anno, dalla mattina alla sera, con voce sempre più lugubre, a mano a mano che il calzolaio invecchiava, nella gioventù di Fontamara cominciò a farsi strada un serio timore che il general Baldissera, sia per temerarietà, sia per distrazione o leggerezza, finisse veramente col fidarsi della gente nera. Molto più tardi apprendemmo che il guaio era già avvenuto prima che noi nascessimo.
La seconda avvertenza è: in che lingua devo adesso raccontare questa storia?
A nessuno venga in mente che i Fontamaresi parlino l'italiano. La lingua italiana è per noi una lingua imparata a scuola, come possono essere il latino, il francese, l'esperanto. La lingua italiana è per noi una lingua straniera, una lingua morta, una lingua il cui dizionario, la cui grammatica si sono formati senza alcun rapporto con noi, col nostro modo di agire, col nostro modo di pensare, col nostro modo di esprimerci.
Naturalmente, prima di me, altri cafoni meridionali han parlato e scritto in italiano, allo stesso modo che andando in città noi usiamo portare le scarpe, colletto, cravatta. Ma basta osservarci per scoprire la nostra goffagine. La lingua italiana nel ricevere e formulare i nostri pensieri non può fare a meno di storpiarli, di corromperli, di dare a essi l'apparenza di una traduzione. Ma, per esprimersi direttamente, l'uomo non dovrebbe tradurre. Se è vero che, per esprimersi bene in una lingua, bisogna prima imparare a pensare in essa, lo sforzo che a noi costa il parlare in questo italiano significa evidentemente che noi non sappiamo pensare in esso (che questa cultura italiana è rimasta per noi una cultura di scuola).
Ma poiché non ho altro mezzo per farmi intendere (ed esprimermi per me adesso è un bisogno assoluto), così voglio sforzarmi di tradurre alla meglio, nella lingua imparata, quello che voglio che tutti sappiano: la verità sui fatti di Fontamara.
Tuttavia, se la lingua è presa in prestito, la maniera di raccontare, a me sembra, è nostra. E' un'arte fontamarese. E' quella stessa appresa da ragazzo, seduto sulla soglia di casa, o vicino al camino, nelle lunghe notti di veglia, o accanto al telaio, seguendo il ritmo del pedale, ascoltando le antiche storie.
Non c'è alcuna differenza tra questa arte del raccontare, tra questa arte di mettere una parola dopo l'altra una riga dopo l'altra, una frase dopo l'altra, una figura dopo l'altra, di spiegare una cosa per volta, senza allusioni, senza sottointesi, chiamando pane il pane e vino il vino, e l'antica arte di tessere, l'antica arte di mettere un filo dopo l'altro, pulitamente, ordinatamente, insistentemente, chiaramente. Prima si vede il gambo della rosa, poi il calice della rosa, poi la corolla; ma fin da principio, ognuno capisce che si tratta di una rosa. Per questo motivo i nostri prodotti appaiano agli uomini della città cose ingenue, rozze. Ma, abbiamo noi mai cercato di venderli in città? Abbiamo mai chiesto ai cittadini di raccontare i fatti loro a modo nostro? Non l'abbiamo mai chiesto.
Si lasci dunque a ognuno di noi il diritto di raccontare i fatti suoi a modo suo.
Ignazio Silone
Davos (Svizzera), estate 1930